Kobane libera!

La liberazione di Kobane, piccola città al confine tra Siria e Turchia, avvenuta pochi giorno fa ad opera delle milizie curde contro i tiranni dell’ISIS, sicuramente ha segnato il morale delle truppe islamiste. La città di frontiera è stata presa da assedio dalle milizie islamiche alla fine di settembre; da allora sono passati ben quattro mesi, ma infine i curdi, che sono giunti in massa in soccorso dei loro fratelli siriani attraversando il confine turco, sono riusciti ad avere ragione degli assalitori, al prezzo però di un vero e proprio bagno di sangue: 1600 persone sono morte negli scontri, inclusi 459 combattenti curdi e 32 civili. Nonostante tutto, grazie anche ai 17 bombardamenti avvenuti da parte statunitensi nella regione nelle 24 ore prima della fine dell’assedio (i quali, ovviamente, per continuare a tenere il piede in due scarpe, stanno tuttora continuando ad addestrare 1500 potenziali jihadisti), il tricolore ha sventolato sulla città rimpiazzando gli stendardi neri degli aggressori del fantomatico, fasullo e brutale, “Stato islamico”.

Nonostante ciò, la sconfitta dell’ISIS in questa piccola città, certamente non fondamentale per la riconquista ed il controllo dell’Iraq e della Siria, ormai in parte controllati dai macellai che hanno fatto della tortura e del brutale omicidio i loro biglietti da visita, lascerà un segno indelebile nelle menti e nei cuori dei miliziani islamici. Questi erano convinti, infatti, di poter estendere il loro presunto califfato incontrando poca o nessuna resistenza (anche per colpa degli eserciti regolari locali, spesso inadatti ad affrontare fanatici motivati e che fanno ampio uso delle tattiche di guerriglia) sino al confine con la Turchia; invece hanno dimostrato, agli occhi del mondo, oltre alla loro barbarie ed alla loro sete di sangue anche la loro fallibilità e l’essere tutt’altro che invincibili: infatti, gli aggressori hanno perso oltre il doppio degli uomini rispetto ai difensori cristiani. Kobane era stata al centro di una forte propaganda islamista, che ne vedeva una tappa obbligata per schiacciare “i crociati” (così costoro chiamano i cristiani, secondo una vulgata fondamentalista nata agli inizi del XX secolo ma che non ha alcuna base nell’Islam storico) prima dell’espansione verso Gerusalemme e Roma. Pertanto, la riconquista della città avrà certamente effetti duraturi ed importanti sul morale dei tagliagole che per troppo tempo, e con la colpevole complicità di un Occidente mediatico ed opulento, che ha atteso mesi prima di intervenire in quello che, era chiaro, si stava rapidamente trasformando in un genocidio delle minoranze cristiane, hanno potuto fare ciò che desideravano in quella parte del mondo al grida di “Allahu akbar”.

Sebbene certamente non sia possibile esultare per il prezzo di sangue pagato, sia da una parte che dall’altra, è chiaro che questa legittima difesa ha contribuito a ridare una speranza agli oppressi sotto il nuovo regime, regime più volte sostenuto proprio da parte di coloro che, almeno formalmente, si oppongono ad Assad, immemori (spesso neppure innocentemente, come nel caso ad esempio alla Turchia sunnita di Erdogan ed alle sue mire espansionistiche a spese della Siria sciita) di cosa abbia voluto dire il crollo delle dittature nel Golfo per le minoranze che vivevano in quei Paesi islamici. Soprattutto, bisogna avere il coraggio di affrontare la realtà: l’ISIS non è composto da poche centinaia di esaltati, bensì si tratta di una forza para-militare con migliaia di adepti che è arrivata a controllare circa un terzo della Siria e che mira a replicare l’espansionismo islamico del VII secolo, che ha arruolato tra le sue fila un numero non trascurabile di miliziani provenienti da famiglie islamiche che vivono in Occidente anche da un paio di generazioni.

Sondaggi e sepolcri

Sono stati pubblicati, durante gli scorsi mesi, alcuni risultati del sondaggio voluto da Sua Santità per saggiare il terreno sui temi scottanti emersi al Sinodo straordinario lo scorso ottobre e che saranno ridiscussi tra pochi mesi. Ovviamente, è presto a dirsi, il grido che si è innalzato da quei fogli non è quello dei fedeli cattolici, di coloro che, pur sbagliando ed anche gravemente, sono disposti a riconoscere le proprie colpe e ad affidarsi al Cristo ed alla Chiesa in ogni caso. Proprio no, l’urlo che si è levato era quello di un modernismo velenoso ed eretico; e come poteva non essere così, dato che è stato permesso a cani e porci di rispondere alle domande e che i primi risultati provengono, soprattutto, dalle diocesi più progressiste d’Europa? Hanno messo bocca nella questione non soltanto cattolici ma anche membri di altre confessioni cristiane (anche quelli che, un tempo, sarebbero stati chiamati “eretici”), atei, gente che fino al giorno prima dell’elezione di Francesco sarebbe voluta entrare in chiesa solo per bruciarla e così via; e cosa potevano  avere mai da dire costoro? Anche le ricchissime e radicali Conferenze Episcopali tedesche, olandesi, belghe hanno risposto; e cosa potevano mai rispondere, costoro che hanno fatto della “protestantizzazione” delle diocesi loro affidate e dello scisma con Roma, in una chiave nazionalista ed anti-mediterranea sovente, neppure troppo nascosto i loro cavalli di battaglia? Ovviamente, che la Chiesa deve benedire le coppie gay e riconoscere il “matrimonio” omosessuale, che la contraccezione deve essere ammessa, che i divorziati “risposati” (anche usando la balla ed il tranello che “tanto si può già divorziare nella Cattolica, basta passare per la Sacra Rota”, dimenticandosi che essa può solo certificare un matrimonio invalido in partenza) che continuano a persistere nel loro stato devono essere riammessi alla Santa Comunione, magari dopo un fasullo e a posteriori “percorso penitenziale”. Tutto un “deve essere fatto”, insomma, con tutti che devono accettare le loro condizioni senza discutere, altrimenti manderanno tutto in malora. Ma la Chiesa non chiedeva anzitutto filiale obbedienza ai suoi figli? Ma si rendono conto, lorsignori, che stanno letteralmente tentando Dio, in quanto pretendono che le cose siano come vogliono loro, arrivando a lordare la Chiesa pur di non ripulirsi loro stessi?

Senza contare, chiaramente, la vanità di un simile sondaggio: cosa dobbiamo richiedere su questioni che sono già state oggetto di pronunciamenti ex cathedra, e quindi dell’infallibilità pontificia? Al Sinodo di ottobre è possibile che riemergerà l’accesso di schizofrenia modernista e relativista tanto cara ai vescovi capitanati dal card. Kasper che dovrebbe risolvere questo problema, cioè la tesi secondo cui la prassi deve (ancora queste parole!) essere posta al disopra della Dottrina, quando invece la prima dovrebbe scaturire dalla seconda. Anche solo usando la logica, è facile capire che non è possibile pensare di fare del bene se non si sa per quale motivo e che cosa è il Bene; invece, emerge il contrario da certe dichiarazioni e da certi sondaggi, il che insinua il terribile dubbio: cioè che costoro appartengano, né più né meno, alla categoria dei sepolcri imbiancati.

Gente che, abbandonata ogni remora ed ogni residuo di cristianità, ha deciso che il plauso del mondo (mondo che, secondo san Paolo, è appannaggio di Satana) valesse ben più dell’essere cattolici. Dismessi i panni di cattolici, hanno indossato quelli di generici “fedeli”, in che cosa non si sa bene: fregandosene di tutto e tutti, men che meno del Cristo, hanno iniziato a muovere una loro guerra personale contro quella che, è bene ricordarlo, è mater accogliente ma anche magistra severa. O almeno, dovrebbe esserlo.

Perché in un’epoca di lassismo dottrinale e morale (quando non proprio di eresia, termine questo ormai bandito dal nuovo vocabolario clericalmente corretto) quale quella che stiamo vivendo adesso non soltanto ci sono personaggi che fanno i loro porci comodi continuando a proclamarsi cattolici, ma che ormai sostengono prassi e dottrine (o meglio, variazioni dottrinali camuffate da questa benedetta “pastorale”, pastorale che ormai sembra essere una sorta di credo e non, come dicevo sopra, procedente dalla Dottrina essa stessa) non poco ortodosse, ma ormai nemmeno più cattoliche; e, per i propri interessi, accantonano persino il Vangelo. In questo, sono aiutati da una moltitudine di “fedeli” generici, che ormai lo sono solo di nome ma che in realtà preferiscono sé stessi a Dio: tiepidi che fanno finta di essere cattolici, che a parole si dichiarano tali ma che poi, nei fatti, non solo fanno tutto il contrario di ciò che dovrebbero fare ma incitano anche allo scandalo ed allo scisma. Sepolcri imbiancati, insomma.

Termine, questo, usato dal Cristo proprio per indicare quelli che si fanno belli dinanzi al mondo, che apparentemente sono immacolati, misericordiosi, comprensivi (ma in realtà accondiscendenti), che godono del favore della gente e del sostegno sociale; in realtà, sono marci dentro come e più degli altri. Gente che non chiede determinate cose perché vorrebbe farle ma non può: quelle cose già le fanno e, invece di pentirsi delle loro azioni o di fuoriuscire da una Chiesa che sta loro stretta (con tutte le conseguenze per la loro anima), tengono il piede in due scarpe perché non sopportano l’idea che qualcuno possa disapprovare la loro lordura. Costoro hanno abbracciato ciò che non è cattolico, finendo per abbracciare il male, e questo non da ieri bensì da almeno quarat’anni; solo che ora, con la loro preponderanza, se ne apprezzano di più i risultati.

Membri dell’episcopato e semplici “fedeli” tirannici e pseudo-cattolici, che per anni e anni si sono curati più dei loro interessi (sovente economici e sessuali) che del Cristo, anzi usandoLo per i propri scopi, scopi questi spesso in aperta rotta di collisione con la Chiesa. Chiedendo più condivisione, più povertà, più umiltà, scambiando la Chiesa per una filiale dei centri sociali piuttosto che un’istituzione partecipe della regalità del Cristo, hanno svuotato le chiese per riempirsi le tasche e per fare ciò che più volevano quando meglio li conveniva, sovente; e ora pretendono, millantando uno scisma che se non canonicamente de facto è già realtà da anni, che la Sposa di Cristo dovrebbe ratificare i loro peccati, altrimenti le conseguenze per tutta la cristianità saranno terribili.

In realtà, le cose si metterebbero male soprattutto per loro, e non solo dal punto di vista spirituale e storico (basti vedere, ad esempio, la tremenda crisi che stanno subendo in questi anni proprio le confessioni protestanti tradizionali); sto pensando, ad esempio, alla ricchissima Conferenza Episcopale tedesca, dalle cui fila (non a caso) provengono i cardinali Kasper e Marx, punte dell’ala ultraprogressista (e cripto-protestante) cattolica. Se costoro fuoriuscissero dalla Chiesa perderebbero l’entrate della tassa di culto tedesca, rimanendo senza più un centesimo: da nessun’altra parte potrebbero, infatti, raggiungere una simile posizione come quella che detengono adesso, e lo sanno bene. Quindi, per questa gente il trucco non è mutare le proprie posizioni per aderire alla Chiesa di cui farebbero parte (se non per fede almeno per avidità), bensì, peggio ancora, la Chiesa deve mutare per avallare i loro porci comodi, e loro devono poter restare ben saldi dove sono.

Questo è il problema, oggigiorno, messo a nudo da quei questionari: non tanto l’eresia serpeggiante, quando non conclamata, tra il popolo di Dio, la superficialità, il desiderio di adottare una sorta di sistema democratico all’interno della Chiesa (per cui se la maggioranza dice una cosa oggi bene, se ne dice un’altra domani bene lo stesso; e dove va a finire il rapporto con ciò che è Eterno ed immutabile per definizione in un simile marasma?), bensì la mancanza di santità e di serietà. Con l’aggravante della seconda sulla prima: se la santità, difatti, scaturisce dalle virtù teologali e, quindi, a partire dalla fede e dalla carità, la serietà procede dalle virtù cardinali, che tutti gli esseri umani possono coltivare, anche coloro che non credono.

Santità vorrebbe che simili peccati venissero rifuggiti e schifati e che, qualora vengano commessi, si chieda perdono col proposito di non farli più; serietà vorrebbe che, se non ci si vuole scusare ma anzi, si pretende che venga avallato ciò che non può esserlo, si lasci per dignità personale (prima ancora che della gerarchia di cui si fa parte) l’istituzione in cui ci si aggira tronfiamente, accettando in entrambi i casi le conseguenze delle proprie azioni. Invece, adesso è tutto un lanciare il sasso e nascondere la mano.

Dall’Ordine di Santa Maria della Mercede alle italiane liberate in Siria: storia di una caduta

L’epilogo della dolorosa vicenda riguardante le due giovani italiane, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rispettivamente di 21 e 20 anni, sequestrate dai ribelli islamisti siriani e poi liberate, non può non suscitare alcuni riflessioni: per quanto questa avvenimenti siano stati certamente tristi e terribili per le famiglie oltre che per le ragazze coinvolte, è innegabile che vi siano dei punti oscuri e quasi surreali che portano ad interrogarsi.

Appurato che un qualche genere di riscatto deve essere stato pagato, anche se non se ne conosce l’entità o la quantità (inizialmente, tuttavia, erano trapelate voci riguardo a 12 milioni di euro per entrambe), resta il fatto che costoro sono state liberate; ora, i loro carcerieri sicuramente non le avranno rilasciate in cambio di niente, sia perché sono state tenute in ostaggio per svariati mesi (ed avere ostaggi espone questi gruppi ad elevati rischi, in primis proprio quello dei tentativi di liberazione armata da parte di forze speciali, sicuramente meglio addestrate di loro), sia perché sono state catturate e non uccise proprio per avere un tornaconto nella loro guerra jihadista. Quindi, resta da appurare cosa sia stato dato loro in cambio: se non soldi, cosa? Armi? Prigionieri? In ogni caso, non essendoci stata alcuna operazione militare (almeno che si sappia), è segno che gli aguzzini islamisti devono avere ottenuto qualcosa in cambio. Il dubbio che attraversa l’Italia adesso, ad ogni modo, si può riassumere come: è stato lecito questo genere di scambio, qualunque cosa abbia riguardato, se denaro contante, armi o prigionieri, in ogni caso risorse che sicuramente hanno fatto gioco alla causa dei guerriglieri, personaggi che stanno rendendo la vita dei cristiani siriani ed iracheni un inferno?

A questo punto, viene spontaneo fare il paragone con l’Ordine di Santa Maria della Mercede, fondato da san Pietro Nolasco a Barcellona il 10 agosto del 1218: l’ordine nacque anch’esso in risposta alle incursioni islamiche nell’area mediterranea. Si occupava, infatti, di pagare il riscatto (la “mercede”) ai mercanti d’uomini mediorientali, riscattando così i prigionieri cristiani catturati durante le razzie dei predoni lungo le coste. Quindi, in buona sostanza, si può dire che indirettamente finanziassero quei commerci? Apparentemente sì, in realtà no: no perché agli schiavi liberati era chiesto in cambio di testimoniare a coloro che avevano versato la somma richiesta (spesso appartenenti a ricche ed influenti famiglie) le condizioni di vita e le circostanze della loro cattura. In altre parole, anzitutto era chiesto loro di certificare, per così dire, che il denaro speso per il loro riscatto fosse stato speso bene e, soprattutto, facendo prendere coscienza alle famiglie agiate ed al popolo dell’esistenza di un problema nel Mare Nostrum, problema che molti semplicemente ignoravano e che doveva essere risolto con le armi e con la preghiera, come alla fine in effetti accadde. In definitiva, tutto l’opposto rispetto al nostro mettere la testa sotto la sabbia dinanzi a certe responsabilità.

Poi, soprattutto, gli schiavi non erano stati resi tali per loro colpa: non erano andati a fare volontariato nei Paesi islamici mentre questi erano in guerra, né tantomeno avevano cercato di appoggiare cause rivoluzionarie contro governi più tolleranti fomentati da mass media; la loro unica colpa, se così vogliamo chiamarla, era quella di essere cristiani lungo le coste di un mare dominato dalla pirateria saracena. Questo non si può dire per le ragazze: intendiamoci, l’essere rapite da macellai che non si fanno scrupolo di massacrare cristiani e yezidi indifesi è già di suo motivo sufficiente per rendere necessaria la liberazione. Tuttavia, ciò non toglie che anzitutto non si tratta di due eroine, dal momento che desideravano spontaneamente andare ad aiutare la causa rivoluzionaria (anche se bisogna dire in loro difesa che ciò avveniva quando ancora i mass media, bugiardi ed asserviti, la presentavano come la lotta del popolo oppresso contro un tiranno sanguinario, fintamente dimentichi di cosa abbia voluto dire il crollo dei regimi per le minoranze etniche e religiose nei paesi del Magreb); inoltre, a loro non sarà chiesto di testimoniare niente, o ben poco, certamente facendo tutte le attenuanti ed i distinguo del mondo per placare l’opinione pubblica e, magari, fare un po’ di propaganda terzomondista da due soldi: tutto alla fine cadrà nel dimenticatoio e sarà diluito nella melassa del politicamente corretto.

Già, perché questo è quello che sta accadendo: ora che le ragazze hanno potuto riabbracciare la propria famiglia (a cui sorge spontaneo porre la fatidica domanda: perché hanno permesso a delle parenti poco più che maggiorenni di andare in un Paese in stato di guerra attiva?), i terroristi hanno avuto ciò che volevano (che si trattasse di denaro o di altro, forse più congeniale alla loro causa) ed il governo italiano ha rimediato l’ennesima figuraccia, essendosi guadagnato (e non a torto) l’epiteto infamante di collaborazionismo nei confronti del terrorismo islamico, queste stanno velocemente sparendo dai media, impegnati in altre campagne, dopo che sono stati fatti mille distinguo riguardo ai fondamentalisti ed all’ISIS, al divario tra “moderati” e “radicali” e così via. Le solite chiacchiere, insomma. Alla fine della fiera la testimonianza, nuda e cruda, è proibita proprio perché non devono riferire tutto ciò che hanno passato e, soprattutto, qual è stato il prezzo della loro liberazione; o meglio, magari sarà loro concesso (ed è già stato fatto) ma alle regole del politicamente corretto: sbattute in prima pagina per un paio di giorni per poi essere velocemente dimenticate e stritolate fra gli ingranaggi dell’opinione pubblica. Divenendo, quindi, irrilevanti e funzionali ad una politica estera che affonda le sue radici in un voltarsi dall’altra parte ed in un buonismo peloso sinceramente vergognosi.

In buona sostanza, quindi, tutti hanno avuto ciò che volevano, tranne coloro che sono realmente perseguitati, quelli per cui i mercedari avrebbero davvero, e volentieri, pagato: i cristiani che vivono sotto il giogo e la tirannia di questi squadroni della morte islamici, rei di professare una religione diversa da quella, fanatica ed estremizzata, dei loro carnefici. Cristiani, spesso, che hanno un bisogno disperato di uomini, armi, vettovaglie e sostegno, anche e soprattutto spirituale oltre che tattico e popolare; tutte cose che invece gli aggressori di fasulli califfati hanno in abbondanza, grazie al controllo dei pozzi petroliferi nella regione, da cui scaturisce il greggio di cui l’Occidente ha una sempre più disperata dipendenza. Purtroppo, finché i media taceranno e sembreranno quasi accusare cristiani e yezidi di essere causa del proprio male, privandoli proprio di quel supporto di cui hanno assolutamente bisogno, e gli alti prelati occidentali non manderanno un forte invito all’autodifesa ed alla protezione dei luoghi santi e dei fratelli nella fede orientali (come avvenne ai tempi delle Crociate, per inciso), l’ISIS, al-Qaeda e loro epitomi avranno già vinto, lasciandosi alle spalle un mare di sangue che, alla fine,inghiottirà anche noi.

I Vangeli e la storiografia

E’ di moda, oggigiorno, contestare i Vangeli su base storiografica, o presunta tale. Molti hanno cercato, in questi anni, di dimostrare come il testo biblico fosse corrotto, o in ogni caso storicamente poco attendibile: ad esempio, Bart Ehrman con il suo molto criticato “Misquoting Jesus” (tradotto in Italia come “Gesù non l’ha mai detto”) afferma che ci sono state aggiunte anche sostanziali ai Vangeli e, più in generale, al testo biblico, sebbene egli stesso ammetta che queste alterazioni non sono così radicali ed inficianti la storicità dei testi sacri stessi.

Questo punto è di capitale importanza proprio per la polemica anticristiana odierna: infatti, se i Vangeli sono un testo che riporta (come dice la Costituzione Dogmatica “Verbum Dei”) un resoconto “vero e fedele” della vita del Cristo, ne consegue che ciò che vi è raccontato corrisponde alla verità, ossia che il Nazareno era veramente il Figlio di Dio con tutto quello che ne consegue; se però sono frutto di una rielaborazione posticcia e, in alcuni casi, pasticciata di una figura storica preesistente o addirittura, come sostengono taluni degli autori più radicali, mitica, significa che ciò che vi è descritto non ha alcun significato. Se il Cristo non ha fatto determinate cose e, soprattutto, se non è risuscitato, come diceva san Paolo, “vana è la nostra fede”, dal momento che si tratterebbe di storielle in cui non esiste più una veridicità storica e, quindi, un Dio che agisce e che salva nella storia.

Tuttavia, le cose non stanno come certi personaggi vorrebbero far credere; e non stanno così anzitutto per logica, oltreché per fede. Se è vero che esistono parti dei Vangeli “deuterocanoniche” o aggiunte successivamente come note redazionali, vero è che queste sono piuttosto poche e non cambiano il contenuto del testo. Anzi, casomai lo completano: in san Marco, per esempio, è famosa l’aggiunta a posteriori di quasi tutto l’ultimo capitolo, il quale però non contraddice gli altri Vangeli né inficia i contenuti dello stesso libro, anzi lo ultima e chiude una narrazione che, invece, si sarebbe chiusa bruscamente. Ma lasciando stare questo, è notevole la presenza di alcuni brani, per così dire, “trasposoni”, cioè saltati da un testo all’altro: vedasi la Pericope dell’Adultera, l’unico passo deuterocanonico di san Giovanni ma, con ogni probabilità, appartenente al Vangelo di san Luca e solo successivamente rimosso da quest’ultimo (da dove esattamente non si sa di preciso) e trasferito nel primo.

In ogni caso, questi cambiamenti e queste aggiunte redazionali non cambiano né il messaggio evangelico nella sua interezza, né sono prove di modifiche fasulle e posticce: il fatto che non compaiano certi brani in tutti i testi pre-Vulgata (fine IV secolo, basata sul Canone Atanasiano) non significa che essi descrivano avvenimenti falsi, né tantomeno che simili variazioni inficino la storicità di quanto vi è narrato. Per esempio, per quanto riguarda Alessandro Magno le fonti più antiche in nostro possesso sono di svariate secoli posteriori al periodo in cui visse; possiamo affermare lo stesso dei Vangeli e, più in generale, dei libri del Nuovo Testamento? No, dal momento che possediamo alcuni manoscritti e frammenti del II e, addirittura, del I secolo d.C., sostanzialmente concordanti con quanto accennato in altri testi extrabiblici dell’epoca peraltro (come, per esempio, Mara Bar Serapion e le “Antichità Giudaiche” di Flavio Giuseppe) oltreché coi manoscritti successivi.

Un’altra motivazione per non fornire attendibilità a queste insinuazioni riguarda invece proprio il metodo storico stesso: anzitutto, nonostante la storiografia stessa si basi su assunti logici, essa rimane una scienza umana e, quindi, fallibile. La scienza è una branca della filosofia umana soggetta alla logica ed all’esperienza empirica umana, per definizioni fallibili ed imperfette; pertanto, è soggetta a continue revisioni e non può dire nulla sul fine ultimo delle cose. In altri termini, oggi per l’interpretazione storiografica corrente alcuni brani del Vangelo sono frutto di interpolazioni successive dal momento che non si trovano in tutti i manoscritti del I-III secolo in nostro possesso (da cui viene fuori una cosiddetta edizione concordataria), magari domani non sarà più così: se venisse, ipoteticamente, scoperto un Vangelo di san Giovanni del I secolo contenente la Pericope dell’Adultera è chiaro che non sarebbe più sostenibile ritenere essa un passo di san Luca spostato altrove. Non è, in definitiva, possibile sottoporre ciò che è eterno e, per definizione, immutabile, a ciò che caduco e soggetto a mutamento; ed i Vangeli, che rimandano proprio all’Eterno per eccellenza, non fanno eccezione.

Molta di questa critica, poi, non tiene in considerazione che è esistito anche un cristianesimo senza Vangeli, i quali nascono proprio nel solco della Tradizione della Chiesa: per pochi anni, o forse decenni (già quarant’anni dopo la morte del Cristo, con ogni probabilità, tutti i vari libri del Nuovo Testamento erano già stati scritti, meno forse l’Apocalisse) sono esistite comunità cristiane prive di Scriptura, o con solo una parte di essa. Questo però non causa alcun problema, proprio perché, a differenza di quanto asseriscono oggigiorno i protestanti, non è la Scriptura a creare la Traditio bensì l’opposto, i Vangeli nascono all’interno di una tradizione orale vera e fedele, che fa un forte uso della testimonianza oculare (come dice lo stesso san Luca) di coloro che vissero quelli avvenimenti (come gli apostoli stessi) e che, addirittura, arrivarono sovente al martirio pur di non rinnegarli. Quale testimonianza più grande della veridicità del Nuovo Testamento se non quella del martirio? Quindi, il cattolicesimo non si basa tanto su dei libri, bensì sulla testimonianza degli apostoli; e da detta testimonianza scaturisce la Traditio, da cui a sua volta scaturisce la Scriptura, alla quale (come invita lo stesso sant’Atanasio, da cui deriva l’omonimo Canone che verrà definitivamente ed infallibilmente confermato come veritiero e fedele dal Concilio di Trento più di mille anni dopo) non deve essere aggiunto né tolto più nulla, men che meno con motivazioni storiografiche (e, quindi, in ultima analisi immanenti); e ciò è conforme con l’insegnamento della Chiesa stessa, che ha sempre visto nelle manipolazioni dei testi sacri dei gravi peccati. Gli insegnamenti contenuti nei Vangeli tutti interi sono, pertanto, veritieri e conformi alla testimonianza degli apostoli prima e dei Padri e dei Dottori della Chiesa poi, i quali anzi ci lasciano forti testimonianza anch’essi della loro storicità; pertanto, anche da un punto di vista teologico e dottrinale non è sostenibile ritenere che ciò che fu aggiunto successivamente non scaturisca anch’esso dalla Traditio, né che fosse falso o frutto di una “rielaborazione teologica” di fatti realmente avvenuti.

Le bestemmie di Cameron

Sono cronaca di un paio di giorni fa le tremende esternazioni di David Cameron, il primo ministro britannico, in una sua dichiarazione alla CBS riguardo alla “libertà di blasfemia”. Cameron così si è espresso, riguardo al discorso del Pontefice inerente la necessità, talvolta, di alzare dei metaforici pugni contro coloro che dileggiano il Nazareno e, più in generale, le religioni:

“Io sono un cristiano, se qualcuno dice qualcosa di offensivo su Gesù, io posso trovarlo offensivo, ma in una società libera non ho il diritto di sfogare la mia vendetta contro di lui”.

e ancora, per rincarare la dose:

“Credo che in una società libera vi sia il diritto di causare un’offesa alla religione altrui”.

Da un certo punto di vista è vero, ha ragione: per il cristiano non esiste un diritto alla vendetta r il prossimo per aver offeso Dio. In fondo, durante la Passione, il Cristo ha ricevuto ogni genere di insulti, di sputi, di percosse: dalla canna in mano a mo’ di scettro fino alla corona di spine, dalle offese (vere e proprie bestemmie, perché rivolte proprio a colui che è Dio) alle percosse vere e proprie, sino all’innalzamento sulla pena più umiliante di tutti i tempi: la croce. Che sarebbe, infine, divenuta il trono ed il simbolo del suo trionfo: quell’antico simbolo di distruzione dell’individuo, inventato dai persiani proprio per assicurare non solo la morte del corpo ma anche dell’anima (la quale sarebbe stata condannata a vagare per sempre senza riposo), adottato dai romani come la pena più infamante di tutte, quella destinata agli schiavi ed ai rivoltosi, alla fine si sarebbe trasformato nel simbolo di speranza e di unione che i cristiani oggi venerano. Dio, si sa, riesce a scrivere dritto anche sulle righe storte della storia. In ogni caso, però, il Nazareno non ha risposto allo scherno dei suoi aguzzini distruggendoli bensì elevando dalla croce il grido “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Ma il fatto che io non debba vendicarmi rivolgendo le armi contro coloro che bestemmiano il Verbo incarnato non significa che simili aggressioni non siano atti di violenza, né che siano tollerabili o, peggio ancora, l’esercizio di un fasullo “diritto” (l’ennesimo) alla bestemmia. La bestemmia, a prescindere dal soggetto, è sempre una azione vergognosa, anzi è un’azione stupida: è stupida se ci credi nel soggetto della blasfemia (e Cameron dovrebbe crederci, essendo, almeno a parole, un cristiano), dato che sai che potresti ricevere la giusta mercede prima o poi e che Qualcuno te ne renderà conto; è doppiamente stupida se bestemmi colui in cui non credi, perché quelle offese sono dirette al nulla. Il fatto che io non creda ad Allah o a Zeus o a Shiva, ritenendoli “dei falsi e bugiardi”, non significa che senta la necessità di insultarli; al contrario, mi sentirei piuttosto stupido nel farlo.

Pertanto, in nessuna società deve esistere un “diritto” alla blasfemia, verso nessuna divinità: perché è un atto intrinsecamente violento e, comunque la si voglia mettere, stupido. Purtroppo, viviamo in una società che ha fatto dell’elogio dell’idiozia e del relativismo la sua raison d’etre; relativismo che non è semplicemente un giudizio di neutralità assoluta (e già questo è sbagliato), ma che è anche ormai una palese forma di denigrazione e di assalto verso chiunque affermi di conoscere la verità.

Il “diritto alla blasfemia” esiste solo nella mente di coloro che, come Cameron, vivono perfettamente inseriti in questo contesto di repulsione verso tutto ciò che è vero e buono, religioso nella sua accezione più alta; ecco quindi che il cristiano primo ministro inglese, dimostrazione vivente anche della deriva immorale e, paradossalmente, anticristica che la secolarizzazione ha fatto prendere alla confessione anglicana, può tranquillamente, da bravo relativista, sentirsi a posto con la coscienza dichiarando di sentirsi semplicemente “offeso” dalla bestemmia contro Colui che dovrebbe essere il suo solo Signore (altro che la regina Elisabetta II) e contemporaneamente difendere il “diritto” a bestemmiare, passando anche come un eroe presso le frange più secolarizzate della società britannica di cui è il premier. Insomma, il suo pensiero è l’espressione di un relativismo intollerante ed ubiquitario, che riesce ad unire ed a far coesistere in una sola persona assunti diametralmente opposti tra loro. Un vero e proprio bis-pensiero orwelliano, in cui si può credere in una cosa (“la bestemmia mi offende”) ed in una esattamente contraria (“la bestemmia è un diritto”, quindi una cosa buona) allo stesso tempo, senza sentirsi minimamente in imbarazzo o illogici ma, anzi, esaltati dall’approvazione popolare.

Pertanto, caro ministro Cameron, no, non esiste alcun diritto alla blasfemia: e non esiste proprio in virtù di ciò che ha fatto il Cristo. Non esiste neppure verso le divinità adorate dalle altre religioni, perché chi fa ciò dimostra la sua somma stoltezza; a maggior ragione quelle verso il Verbo incarnato, unico vero Dio. Come diceva san Tommaso d’Aquino “il fatto che noi dobbiamo sopportare le offese, non significa che dobbiamo tollerare quelle rivolte a Nostro Signore”.

La Gay-TV: come riuscire a rendersi insopportabili

Qualche settimana fa, mentre stavo seduto sul divano, mi sono messo a cambiare canale sul televisore, alla ricerca di qualche sit-com o di qualche film, magari anche trash, che potesse aiutarmi a passare il pomeriggio. Mentre scorrevo i canali di una nota azienda di TV satellitare alla ricerca di qualcosa che potesse soddisfarmi, mi si sono parati davanti agli occhi non uno ma ben due spettacoli televisivi che definire di cattivo gusto credo sia riduttivo: dei veri e propri crogioli di tutto ciò che il politicamente corretto americano può riuscire a produrre, riuscendo persino a risultare odiosi nella loro esagerazione e pesantezza. Programmi di cui non riesco a spiegarmi il successo, ed il cui successo anzi fa molto riflettere. Ma andiamo con ordine.

Nella prima serie televisiva una coppia di maschi gay decide di avere un figlio (desiderio, ho scoperto poi, derivato dalla voglia di “giocare al papà” di uno dei due, che ha visto un pupo in carrozzina e ha da lì desiderato averne uno, nemmeno fosse un cane); ovviamente, la natura si oppone al loro desiderio, quindi come aggirare la cosa? Semplice: mettendo incinta (con una bella miscela dello sperma dei due, ovviamente) una mamma single e più che pronta ad accettare la cosa. Come se non bastasse, la nonna di lei (l’unica, evidentemente, con ancora un po’ di buonsenso) si oppone alla cosa, finendo con l’essere tratteggiata come una macchietta: ovviamente è repubblicana, ovviamente è “omofoba” (qualsiasi cosa voglia dire), ovviamente è cristiana, ovviamente è un’impicciona, ovviamente è un po’ strana.

Nella seconda, invece, assistiamo ad uno squallido quadro familiare allargato, in cui tutti sono reduci di almeno un matrimonio (a parte i minorenni e la coppietta omosessuale, ovviamente) per cui il fratello di qualcuno è gay e si è “sposato” (diciamo così) con un altro gay, ed ovviamente hanno adottato una piccola. Grazie a Dio, almeno stavolta sembra che non siano venute certe pulsioni osservando qualche bimbo in carrozzina.

Tralasciando il dubbio gusto di entrambe le trasmissioni, che trattano con superficialità e come fonti di comicità, da sbattere in prima serata per il ludibrio degli spettatori, cose come gli uteri in affitto e le adozioni omosessuali, ciò che stupisce sono proprio i gay per come vengono caratterizzati e presentati.

Ora, l’intento di queste serie televisive, provenienti tra l’altro dalla patria del politicamente corretto, è chiaramente elogiativo: si mira a presentare le coppie gay “sposate” come normali, magari anche moralmente superiori a quelle etero (prova ne è l’ultima serie televisiva, dove l’unica coppia stabile, guarda caso, è quella omosessuale) e vessate dagli “omofobi” bianchi, cristiani e cattivi; tuttavia, ho trovato stranamente disturbante come si arrivi all’esatto opposto, cioè che dopo la visione di un solo episodio si arrivi a detestare, più di tutti, proprio i personaggi appartenenti all’altra sponda.

Sono, infatti, sempre coppie dove un effeminato si unisce con uno più mascolino; e non effeminato per modo di dire, proprio effeminato con movenze pseudo-femminili, vocetta zuccherosa, passione per i travestimenti e le feste, ovviamente queste ultime effettuate con tutto il lusso possibile. Questo, forse, potrebbe intenerire lo spettatore americano medio, almeno nella mente dei registi ideologi che hanno progettato il tutto; in realtà disgusta, rende insopportabili e falsi proprio coloro che, in queste serie, sono i più tutelati e perfetti sotto ogni aspetto. Personaggi untuosi e poco maschili, che fanno moine per ogni minima cosa e che pensano che tutto sia un loro diritto, ricchi sfondati e che non si fanno scrupolo di cercare di “convertire” chi sta loro appresso, se osa anche solo disapprovare ciò che fanno, alla loro gaiezza. Degli elementi, insomma, a cui non farei avvicinare mio figlio, figuriamoci permettere loro di adottare un bambino!

Se io fossi gay, disapproverei proprio questi spettacoli e mi arrabbierei tremendamente contro chi li produce: tralasciando il fatto che, proprio in nome del politicamente corretto di cui sopra, ormai in ogni telefilm proveniente dalle Americhe deve essere presente almeno un omosessuale, cosa ormai stancante e ripetitiva che ha portato al proliferare di personaggi di basso spessore e, spesso, promiscui, mi arrabbierei a morte con chi cercherebbe di presentarmi come un effeminato, un debole, un ricco viziato che vuole solo avere il bambolotto con cui giocare, non un figlio (che intrinsecamente d’altro canto non può proprio avere) bensì un pupazzo da esibire con orgoglio. Io, se dovessi essere accostato a simili personaggi, a “zietti” untuosi di quella risma, ed a simili contesti familiari non dico semplicemente eterodossi, ma proprio terribili (divorzi multipli, madri single abbandonate da tutti meno che dalla propria nonna) mi offenderei in maniera tremenda; e mi arrabbierei proprio perché questo spaccato di gaiezza, che poi sarebbe quello sbandierato orgogliosamente da certe associazioni “di bandiera” (vedasi i Gay-pride, ad esempio, per farsi un’idea), mi lederebbe nel mio essere uomo o donna a prescindere dall’essere omosessuale e mi dipingerebbe come un essere voluttuoso, che vuole a tutti i costi il giocattolo nuovo, infischiandosene di chi rimarrà danneggiato dai suoi desideri (il bambino) e con il compiacimento di (quasi) tutti gli etero che lo circondano.

I quali sono ancora peggiori rispetto alle coppie gay stesse: in nome di un buonismo insopportabile e di un politicamente corretto intollerabile, nessuno osa dire niente ai nuovi intoccabili, anzi tutti fanno a gara per dimostrarsi più “tolleranti” ed “accoglienti” nei loro confronti, soprassedendo su come si sono procurati i loro figli (utero in affitto nel primo caso, adozione illecita nel secondo), beandosi di come i loro parenti, o amici, si sono fatti anche loro una famiglia, chiaramente senza “l’altra metà del cielo”; famiglia che però non risulta un simulacro di quella vera più delle altre, perché anche quelle degli stessi eterosessuali che li circondano sono fasulle e fintamente felici, con divorzi e tradimenti perpetrati da parte di tutti ai danni di tutti gli altri. Chi osa opporsi (e, magari, ha una sola famiglia normale alle spalle, senza divorzi e senza compagni/e dello stesso sesso) è velocemente ridicolizzato, ridotto a macchietta e bollato dell’infamia di essere “omofobo”; o meglio, queste sarebbero le intenzioni di registi, sceneggiatori e produttori.

In realtà, spesso queste figure, per quanto siano delle macchiette, per quanto siano fasulle e per quanto ci si sforzi di renderle assolutamente minoritarie ed antagonistiche, risultano ben più simpatiche e bene accette rispetto sia agli omosessuali che agli etero gay friendly stessi, almeno ai miei occhi. Gente che almeno ha il pregio di non cedere all’ipocrita buonismo e di inchinarsi supinamente dinanzi alle voglie dei propri conoscenti, ma che  invece esprime le proprie perplessità ed i propri dubbi, quando non proprio la sua riprovazione. In tutta quella melassa politicamente corretta alla fine proprio l’untore del XXI secolo, l’ “omofobo”, risulta essere quasi eroico nella sua normalità, in maniera esattamente contraria a quella desiderata da chi, con queste produzioni, ci campa.

Pertanto, cari gay, permettete che un maschio etero e cattolico vi dia un piccolo consiglio: non fatevi rappresentare da questa gente. Almeno, se avete un po’ di amor proprio, protestate, reagite, pretendete dei distinguo; e non per rendere queste serie ancora più viscide e mielose, ma proprio per eliminarle, perché non vi fanno affatto onore.

La preghiera dei fedeli, o anche delle chiacchiere

Chiunque vada a Messa la domenica sa che c’è un momento della celebrazione in cui, inevitabilmente e senza che ci sia quasi antidoto, l’attenzione scema, le palpebre calano e la mente vaga verso lidi inesplorati. Non ha alcuna importanza se la celebrazione è stata presieduta dal più grande biblista del mondo o dal sacerdote più carismatico della Terra, o anche dal Pontefice in persona: senza eccezione alcuna, anzi con così poche eccezioni da destare scalpore quando avvengono, ecco che perviene il momento più noioso, quello che non solo non ti aiuta ad entrare nel mistero del Sacrificio eucaristico ma che, anzi, sembra invogliarti ad uscire pensando ai fatti tuoi; si tratta della famigerata preghiera dei fedeli.

Premesso che considero la Santa Messa la fonte ed il culmine della vita cristiana, proprio perché in essa è celebrata la Santa Eucarestia (Essa stessa il vero culmen et fons), e che anzi sarebbe bene per il cristiano andare a Messa quando può, non solo la domenica, resta il fatto che la preghiera dei fedeli è uno dei momenti meno incitanti il raccoglimento e la preghiera della santa liturgia, paradossalmente. E lo è perché sembra un comizio politico, che ben poco c’entra col Vangelo. Leggiamo quello che si è ascoltato oggi tra i banchi, da disposizioni ufficiali CEI:

1. Per la Chiesa che oggi celebra la Giornata Mondiale per i migranti e i rifugiati, affinché sia riservata a loro una accoglienza appropriata alla dignità umana, nel rispetto della sicurezza reciproca e della legalità, preghiamo.

2. Per i cristiani: perché in questa giornata del migrante e del rifugiato, sempre di più siamo motivati ad accogliere, aiutare queste persone spesso perseguitate per la loro fede, a livello personale e comunitario, preghiamo.

3. Per i malati e i sofferenti nel corpo e nello spirito: perché anch’essi rispondano prontamente alla chiamata a saper patire e offrire se stessi con Cristo, medico delle anime e dei corpi, preghiamo.

4. Per la nostra comunità parrocchiale, che, di domenica in domenica, ascolta la parola di Dio: perché tale parola la tocchi in profondità, portandola ad interrogarsi sul valore della nostra esistenza, preghiamo.

Non c’è qualcosa di strano? La parola “Cristo” compare solo nella terza strofa, e non c’è uno straccio di riferimento a Dio nelle prime due! Se uno, senza sapere di cosa si parla, lo leggesse e gli si chiedesse che cosa ha capito, cioè chi procede da chi e chi precede chi in ordine di importanza, risponderebbe sicuramente: prima la Chiesa, poi la Giornata per i migranti, poi il Cristo e, quindi Dio. Praticamente, quasi tutto il contrario di quello che sarebbe l’ordine giusto.

Poi, c’è da notare il linguaggio: politichese allo stato puro. Non solo è noioso, simile più ad un discorsetto scritto in fretta e furia che non al prodotto di una profonda meditazione, ma non assomiglia neanche lontanamente al linguaggio evangelico da cui, invece, dovrebbe trarre ispirazione. Nei Vangeli il Cristo si rivolge sempre al suo auditorio con termini molto concreti, razionali: non usa mai parole come “accoglienza”, “dignità”, “sicurezza reciproca”, “legalità”. Non perché queste non siano cose giuste e doverose, intendiamoci, ma perché il linguaggio del Signore è pulito, semplice, concreto, privo di ambiguità; tocca il cuore e si fa capire da tutti, anche da chi non ha un master in politichese. Parla di pane, di vino, di dare il mantello a chi è nudo, di consolare gli afflitti: tutte cose umane nella loro accezione più alta, tutte cose immediatamente comprensibili a chiunque, dal professore universitario con tre lauree, due dottorati ed un master come pure al bambino delle favelas brasiliane; tutte cose, però, comunque sia non banali e che, anzi, richiedono impegno e costanza.

Invece, andiamo ad esaminare il linguaggio della preghiera dei fedeli di oggi (ma potrebbe anche essere quella della settimana scorsa, o di quella prima ancora o di quella che verrà): tanti termini teorici e che richiedono poco o nessun impegno personale. Non c’è un coinvolgimento emotivo e spirituale, men che meno pratico, solo formulette che potrebbero essere state tratte da un qualche comizio di questo o quel politico. Non c’è niente di reale, di concreto: si parla di Giornata Mondiale dei migranti (e sull’opportunità della Chiesa di celebrare certe giornate tornerò in un prossimo articolo), di cristiani, di accoglienza, di dignità, di accoglienza a livello personale e comunitario, di generici malati e sofferenti, di comunità parrocchiale. Niente che tocchi nell’orgoglio il cristiano, che scuota dalla propria ignavia, che coinvolga personalmente il singolo. Esattamente il contrario di ciò che dice invece il Cristo, il quale ti guarda negli occhi e dice in ogni sua parola, in ogni suo atto, “tu per me sei importante; vieni e vedrai, te lo dimostrerò”. E non un “tu” retorico, per cui potrebbe essere Luca o Gian Paolo o Mattia, o una generica comunità cristiana e non farebbe alcuna differenza: no, parla proprio a me, Antonio, e di me. Che parli anche ad altri è secondario, il Cristo si concentra alla stessa maniera su tutti, perché siamo tutti importanti per Lui; non gliene frega niente di una generica “comunità parrocchiale”, gli importa delle singole persone, di come si rapportano con Lui e di come seguono le Sue parole.

Non dice che “devi saper patire e offrire te stesso con Cristo”, ma dice “guarda, patisco come stai patendo te adesso, sulla Croce su cui sono salito anche per te; se io ce l’ho fatta ce la puoi fare anche tu, perché ti amo e ho dato la mia vita per te”. Non dice “la mia Parola ti tocchi in profondità, perché ti porti ad interrogarti sul valore della tua esistenza”, bensì dice “se mi ami osserva la mia Parola, la mia Parola è vita, è acqua viva”. Non spreca parole, il Signore: ti tocca nel cuore, ti rimanda all’Essenziale, Essenziale che, alla fine, è Lui stesso.

Alla fine della fiera i risultati di questa mitragliata di termini, un po’ frastornanti, un po’ noiosi, un po’ in politichese stretto, sono sotto gli occhi di tutti: chiedete alle persone in uscita dalla Santa Messa cosa si ricordano, cosa le ha colpite. C’è chi vi risponderà il Vangelo, chi l’omelia (se il celebrante è stato bravo), chi la consacrazione; ma nessuno si ricorderà della preghiera dei fedeli, né tanto meno la citerà come momento importante della funzione. E’ più facile che citino come momento importante e toccante della funzione il Padre Nostro (non a caso essendo stato proclamato dal Cristo stesso) anziché una serie di formulette vuote. Confesso che anche io, appena pronunciate le risposte, mi dimentico in maniera praticamente istantanea ciò per cui ho appena pregato; perché, indipendentemente dalla concentrazione e dalla buona volontà, si tratta di cose vuote. Di chiacchiere.

Già, perché queste sono spesso le intenzioni nella preghiera dei fedeli: chiacchiere. Cose vuote che, una volta pronunciate, non richiedono impegno, non richiedono coinvolgimento e che non ti smuovono neppure di un millimetro dalla tua piccineria; semplici formulette che spariscono dalla mente, e dal cuore, non appena è stata data la stanca risposta, in attesa di passare alla liturgia eucaristica vera e propria. Non c’è raccoglimento, non c’è una vera preghiera, non c’è un linguaggio veramente evangelico; anche profondo, anche paolino può essere il linguaggio nel Nuovo Testamento e degli uomini di Dio, duro spesso, ma se ha una peculiarità è che non è noioso. Scandalizza, fa discutere, tocca, consola, infastidisce, talvolta pure suscita repulsione, oggi come duemila anni fa, ma non è mai, mai noioso. Soprattutto, non si dimentica facilmente, perché parla a te e di te; non di una generica “comunità parrocchiale”, che non richiede alcun coinvolgimento e che non dà alcun fastidio, perché “tanto se ne occuperà qualcun altro”, ma ti tocca nel profondo, ti spinge a cambiare, a volgerti verso il Signore, a convertirti insomma.

Quindi, carissimi nostri pastori, io vi invito, se non ad eliminare la preghiera dei fedeli, almeno a revisionarla; per carità, non a lasciarla interamente ai nostri laici o sacerdoti, i quali sarebbero capaci, perlomeno alcuni di essi, di proclamare degli scempi dal pulpito (e alcuni già lo fanno), magari dei veri e propri comizi politici, bensì a riportarla davvero al Vangelo, all’Essenziale. Magari parafrasate la Scrittura, o meglio ancora riproponete le preghiere dei grandi santi: ce ne sono a migliaia tra cui scegliere, ed anche essi non sono mai noiosi. Lunghi, magari, ed impegnativi, però certamente non fastidiosi e soporiferi. Ma per favore fatevi capire senza tanti giri di parole, ché a cercare di essere politicamente corretti e moderni finite solo per causare noia e distrazione tra il popolo di Dio che cerca di seguire la Santa Messa.

Il Belgio, la Francia e la vanità

Quanto è accaduto in questi giorni, in Belgio, con la cellula terroristica scoperta e smantellata, come pure in Francia, con i tristi fatti che hanno coinvolto il triste giornaletto satirico “Charlie Hebdo” ed un negozio di cibi kasher, ci impongono a ripensare alcuni temi su cui, per troppi anni e con troppe motivazioni ideologiche, si è preferito glissare o tacere, magari in nome di un buonismo peloso che, in nome di un politicamente corretto e di un relativismo veramente odioso e, ormai, impossibile da sostenere, ha tentato di mettere a tacere le coscienze. Queste, invece, dovrebbero essere sempre vigili per non ricadere negli orrori che hanno contraddistinto il XX secolo; orrori che, lungi dal non potere più accadere, si stanno drammaticamente ripresentando sotto i nostri occhi stupefatti proprio in questi ultimi anni. Tuttavia, se la storia ci insegna una cosa è che essa tende a ripetersi, e che l’uomo di oggi non è né più intelligente né più capace di evitare gli errori dei propri antenati rispetto all’uomo di ieri.

Già, questo è il punto focale di tutto quanto è avvenuto: i fatti di questi giorni non erano imprevedibili, e soprattutto non sono opera né di pochi sbandati (come dimostra, emblematico, il caso del Belgio) né tantomeno di “poveri” immigrati che, giunti in una terra con usi e costumi che non possono comprendere, hanno perso la ragione: no, ciò che colpisce è come gli attentatori siano stati cullati e coccolati in seno ad un Occidente indulgente e permissivo; Occidente che ha fatto dell’accoglienza indiscriminata, della solidarietà pelosa e del politicamente corretto le proprie linee di condotta quando si deve rapportare ad altri popoli, anche grazie all’incapacità di certa Chiesa di riuscire a levare una voce autorevole (ed una eccezione lodevole in tal senso è, senza ombra di dubbio, rappresentata dal discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, discorso contro cui si levarono, ipocritamente, voci di dissenso da parte di coloro che, proprio in questi giorni, stanno subendo le conseguenze di ciò che fu detto allora) ed a fare fronte comune contro le devianze e le scelte ideologiche dietro agli eventi degli ultimi giorni, in nome di un malposto senso di “tolleranza” e di “rispetto”. Tolleranza e rispetto, ormai, talvolta sfociati anche nell’aperto elogio della blasfemia da parte di alcuni membri del clero, come è accaduto a Parigi da parte di alcuni gesuiti appartenenti ad un famoso giornale (vedi qui).

Tornando al discorso di prima, ad ogni modo, ciò che colpisce è proprio questo: i terroristi, o aspiranti tali, non erano immigrati clandestini o imam iraniani arrivati in Europa da uno o due anni, convinti di essere finiti a Babilonia o, peggio ancora, a Sodoma. No, erano cittadini per diritto di nascita dei Paesi che intendevano colpire, di seconda o terza generazione o addirittura occidentali convertiti all’Islam. Questo è il segno più radicale di una verità sconcertante, una verità che l’Occidente post-cristiano non vuole e non può accettare: l’integrazione non ha fallito, non c’è stato un deficit di integrazione, bensì si è compiuta pienamente e questi ne sono i risultati. Giovani che, dopo aver studiato, frequentato palestre, essere andati al cinema, al ristorante, al bagno persino ed in qualche caso, suppongo, pure a letto con degli occidentali, magari persino con qualche parente (o più di qualcuno), acquisito o meno, europeo, non hanno sviluppato un benché minimo senso non dico di gratitudine, ma almeno di appartenenza verso i Paesi che ospitarono i loro padri e, talvolta, i loro nonni. Costoro hanno vissuto, hanno sfruttato le ricchezze dei Paesi in cui vivevano, usandoli per raggiungere un benessere ed un progresso tecnologico che nei luoghi da cui provenivano, i “paradisi della shari’a” che avrebbero voluto esportare in Europa, non avrebbero mai potuto nemmeno immaginare. Hanno, letteralmente, parassitato quei Paesi, usandoli e guardandosi bene da diventare altro se non magrebini, come i loro padri o nonni: giammai sarebbero diventati francesi, o belgi. Perché per costoro l’Occidente post-cristiano è un’enorme Sodoma (e su questo, forse, tutti i torti non hanno, basta vedere ad esempio la Svezia ed un certo terrificante cartone animato, ai limiti della pedofilia se non li ha già passati), debole e patetica, amorale insomma quando non proprio sprezzantemente immorale: ne è stata prova per loro l’impiego di 90000 poliziotti (che ciò sia vero o meno, poco importa; questi sono stati i dati proclamati, con imbarazzante orgoglio, dai francesi) per catturare tre terroristi, ne sono prova anche le discussioni, in queste ore, sui patetici metodi che i discendenti degli antichi Galli vorrebbero usare per salvare, se non la patria, almeno la faccia: si va dall’obbligare di cantare la Marsigliese (altro frutto di quell’evento terrificante e sanguinario noto come Rivoluzione francese) all’insegnare una sorta di “morale laica”, con tanto di libretti stampati.

Ora, io mi chiedo: a cosa pensavano la ministra Vallaud-Belkacem e i sette ex-ministri della cultura da lei radunati quando sono state avanzate simili proposte? Credono davvero che, per far fronte alla ormai plurisecolare minaccia all’Occidente che, in questo momento, preme anche all’interno dello stesso, basti semplicemente far cantare agli alunni la Marsigliese? O che gli islamici radicali, cittadini di seconda-terza generazione, rinunceranno alle loro mire ed ai loro desideri per aver letto un libretto in stile UNAR, quando neppure il laicismo più spinto, la secolarizzazione più assoluta e l’ateismo più militante sono riusciti anche solo a rallentarli nei loro propositi? Crede davvero, il ministro assieme ai suoi consiglieri, di poter fare ciò che non riesce più neppure alla Chiesa (o almeno, ad alcuni prelati, ché nel mondo grazie a Dio vi è anche fior di clero con la testa sulle spalle), ovvero essere una alternativa credibile ed efficace al pensiero islamico radicale?

Non è un caso, infatti, che questi avvenimenti ed i problemi che coinvolgono la difficile convivenza delle comunità islamiche con il resto della società in Francia, Belgio ed Inghilterra (la quale anch’essa si è distinta per il numero di combattenti islamici andati in Siria per arruolarsi fra le fila dell’ISIS, oltre che per gli attentati di qualche anno fa) si siano svolti e continuino ad avvenire proprio sorte in quei Paesi che, in nome del politicamente corretto e di una visione buonista e colpevolista (spesso derivante dai sensi di colpa nei confronti del loro passato coloniale e da uno sciocco senso di superiorità morale, confondendo, probabilmente, l’amoralità ed il moralismo con il raggiungimento di una nuova frontiera della moralità stessa), quando non dichiaratamente autolesionista, della società e dell’integrazione, hanno permesso a costoro di fare tutto ciò che volevano fino a creare pericolose società parallele, dove i tribunali della shari’a possono fare ciò che vogliono senza che le autorità statali lo sappiano o quasi. Questi Paesi, infatti, ormai sono non solo post-cristiani, ma proprio ex-cristiani: Dio è stato messo in cantina, favorendo la fiera degli atteggiamenti vani quali, ad esempio, la fissazione per i nuovi “diritti” e l’accondiscendenza nei confronti di tutti. Di tutti, meno che dei cristiani, ovviamente, “colpevoli” di non assecondare la nuova visione relativista ed, in ultima analisi, buonista della realtà. La vanità, in effetti, dell’Occidente ex-cristiano è proprio questa: illudersi che gli inesistenti e pretestuosi “nuovi diritti” e la secolarizzazione galoppante potranno frapporsi fra loro e gente motivata ed aggressiva, spinta da una fede che non scende a compromessi.

Ecco quindi perché si pensa che dei corsi con libretti di “morale laica”, da affiancare magari ai famigerati corsi di “educazione (omo)sessuale”, e magari di obbligare a cantare in classe una canzone rivoluzionaria possano salvare la Francia e magari il resto dell’Europa: perché soltanto questo è ciò che l’Occidente post-cristiano può interporre all’avanzata dell’Islam militante (e militare) oggigiorno. Si tratta, in sostanza, proprio di una parodia di quella religione che ormai è schifata un po’ ovunque e che, in nome della “laicità” ovviamente, deve sparire dalle scene pubbliche: al posto dei Dieci Comandamenti dei libercoli con sopra scritto quali sono i comportamenti “giusti” e “sbagliati” (ma senza un riferimento che spieghi perché sono tali), al posto dei Sacramenti il nuovo sacramento “laico”, e pure ecumenico all’ennesima potenza, cioè il sesso in tutte le sue forme e con chi più aggrada, al posto degli inni sacri La Marsigliese, eletta a nuovo Te Deum dalla Francia. La quale non si rende conto di non celebrare così la propria grandezza, ma soltanto la propria caduta.